LE CROCI DI VETTA

Tanti conoscono la stele, sormontata da una croce, che svetta sulla cima del Monte la Fine e che coi suoi 7 metri di altezza, porta la quota della montagna esattamente a 1000 metri.
L’anno di costruzione della prima croce, il 1900, riporta alla campagna, voluta dal Papa Leone XIII, di far erigere su 19 montagne italiane, tanti erano i secoli passati dalla nascita di Gesù, altrettanti monumenti devozionali al Cristo Redentore.
I cattolici italiani, specialmente in campo politico-sociale e perché no mediatico, cercavano di uscire dall’angolo in cui si erano cacciati sostenendo il potere temporale dei papi anche se sarebbe riduttivo vedere questi eventi solo come uno scontro, sulle cime dei monti, tra la Chiesa e la borghesia liberal-massonica post-risorgimentale.
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L’Italia unificata aveva inventato dei rituali propri alternativi al totalitarismo clericale con le bande musicali, le inaugurazioni dei monumenti agli eroi del Risorgimento, le visite dei reali, le manifestazioni ginniche, ecc.; la parte più innovativa del cattolicesimo ritenne che, a questo punto, si dovessero modernizzare anche dei rituali devozionali.
Le vette, da decenni, erano territorio del CAI, espressione della borghesia liberale. A cavallo del volgere del secolo, sulle stesse vette, incominciarono ad essere piazzati degli altari, delle statue dei santi, delle croci e l’Anno Santo 1900 fu il culmine di questo posare dei simboli.
Una croce fu posta perfino sul Monviso, montagna dal grande significato simbolico per la nascita del Club Alpino Italiano.
Il conte Giovanni Acquaderni, di Castel San Pietro T., fu particolarmente attivo in queste iniziative. C’è da sottolineare, in generale, la partecipazione degli abitanti della montagna al movimento che ebbe così un successo perfino superiore alle aspettative dei promotori e portò all’innalzare croci e statue ben al di là delle 19 montagne iniziali.
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L’alpinismo era figlio prima dell’esplorazione illuministica dei monti poi del successivo Romanticismo, culture lontanissime dalla Chiesa ma, proprio in quegli anni, quando ormai nessuno credeva più al Papa-Re, degli alpinisti cattolici presero a collaborare e ad iscriversi al Club Alpino Italiano; particolarmente rilevanti le figure di Piergiorgio Frassati, torinese e di Giuseppe Micheli di Parma, nipote di Giovanni Mariotti fondatore della sezione CAI dell’Enza. Senza aderire, naturalmente, alla deriva nazionalista e guerrafondaia che il Club Alpino Italiano stava prendendo nel periodo che precedette la Grande Guerra. Così, con l’aiuto del CAI, delle autorità locali e, a volte, perfino dell’esercito, il disegno che alcune cerchie clericali avrebbero voluto vedere come sfida alla nazione italiana, rientrò a pieno titolo nella cultura del nostro paese.
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Certo il fenomeno, col passare del tempo, è sfuggito di mano, ogni diocesi o parrocchia, per espressione di fede o per marcare il territorio, ha incominciato a piantare croci & affini su ogni sperone, a volta veri e propri tralicci metallurgici che, come ha detto qualcuno, “i nostri monti devono sopportare”.
Lo stesso presidente del CAI, Annibale Salsa, ha dovuto invocare principi di “sobrietà” e di evitare opere fuori scala in questi simboli devozionali.
Lo stesso discorso vale per la nostra zona e, accanto ai vecchi, sobri, pilastrini del M.la Fine, dei Tre Poggioli e di Belmonte, delle croci “metallurgiche” hanno, un po’ ovunque, sostituito le meno vistose croci di legno. Nella vana speranza che servano per essere meno incattiviti.
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Antonio Zambrini